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GLI STATI UNITI D’EUROPA

E LE VARIE TENDENZE POLITICHE



Wir gehören zum Geschlecht,
das aus dem Dunkeln ins Helle
strebt.

Goethe.



Quale sia il male profondo che mina la società europea, è evidentissimo ormai per tutti: è la guerra totale moderna, preparata e condotta mediante l’impiego di tutte le energie sociali esistenti nei singoli paesi. Quando divampa, distrugge uomini e ricchezze; quando cova sotto le ceneri, opprime come un incubo logorante qualsiasi altra attività. Nessuno oggi può consolidarla con la spensieratezza d’un tempo. «La guerra fresca e gioiosa» cioè l’avventura inebriante, breve, relativamente poco costosa, poteva affascinare una trentina d’anni fa spiriti leggeri che non avevano riflettuto sulle enormi capacità distruttive della tecnica moderna e sull’imbarbarimento degli animi. Gli uomini di oggi, che in gran parte vedono già per la seconda volta il flagello, conoscono tutta l’insulsaggine di quel mito, e si rendono conto che il pericolo permanente di conflitti armati fra popoli civili deve essere estirpato radicalmente, se non si vuole che distrugga tutto ciò a cui si tiene di più. Può essere utile indicare brevemente come sieno oggi in generale orientate le idee degli uomini intorno a questo problema, e che cosa ci sia ragionevolmente da attendersi da questi orientamenti, qualora possano realizzarsi in effettive istituzioni ed opere. Possiamo raggrupparli, trascurando sfumature secondarie, intorno a tre indirizzi tipici.

1°) Il razzismo, che vede una via di uscita nella instaurazione della signoria della razza superiore alle altre;

2°) La democrazia, che vede nei regimi tirannici la causa delle guerre e conta sulla pace che deve accompagnare le restaurazioni democratiche;

3°) Il comunismo, che considera il capitalismo come il colpevole dei conflitti e ne esige perciò l’abolizione come condizione necessaria della pace tra i popoli.

Dopo aver esaminato questi tre indirizzi cercheremo di indicare la via lungo la quale converrà ricercare la soluzione più corrispondente alle esigenze della civiltà europea.


I. — IL RAZZISMO E L’UNITÀ EUROPEA.


1°) Per l’ingenuo europeo che, senza pensarci troppo, aveva creduto che la civiltà del secolo XIX fosse la forma, per così dire, naturale e spontanea in cui si esplica l’attività umana, l’apparire e il giganteggiare dell’atteggiamento razzista sembra presso a poco un cumulo di assurdità, di pazzie, di falsità. In realtà, il rispetto della reciproca libertà sulla base di un’eguaglianza giuridica è solo il risultato di un complesso processo storico, nel quale si sono venute incanalando quelle che sono veramente le tendenze immediate dell’animo umano, indirizzandole verso scopi diversi da quelli cui spontaneamente si volgerebbero. L’uomo civile è un prodotto complicato e fragile. I più grandiosi frutti della civiltà sono dovuti alla ferrea disciplina che questa impone al selvaggio animo umano. Ma quando gli uomini vengono a trovarsi di fronte a problemi la cui soluzione è di importanza vitale e di cui tuttavia non riescono a venire a capo per le resistenze che incontrano e per la mancanza di strumenti atti a risolverli in modi civili, quella disciplina si può spezzare e lasciar emergere le forze primordiali. Le quali tendono a risolvere le difficoltà colla violenta imposizione della loro volontà.

Se prevalgono, tendono ad organizzare tutta la società secondo il rapporto fra padrone e servo. Il padrone decide autocraticamente il da fare: il servo fa quello che ordina il padrone. Coloro che fanno resistenza vanno soggiogati, o, se non vogliono sottomettersi, distrutti. Chi sottomette afferma in tal modo la sua personalità, le sue esigenze. Chi si sottomette rinuncia con ciò alla propria autonomia, e preferisce conservare la propria vita facendola dipendere da un altro, anziché perderla. È questa la legge immanente al tipo di società basata sul diritto del più forte.

2°) Attraverso un secolare processo la nostra civiltà aveva abolito legalmente il rapporto fra padrone e servo, e andava cercando le vie per abolirlo anche di fatto. Invece, in forme inaspettate, è di nuovo apparso prepotentemente dalle profondità. In altra occasione si potranno esaminare le vicende attraverso le quali questo atteggiamento è riemerso in questo o quel paese, affermandosi allo stato più puro in Germania. Qui ci basti accennare che non è stato causato, ma solo occasionato da motivi economici, accanto a parecchi altri.

Le grandi crisi del dopo guerra sono state fra le più grosse difficoltà contro cui si è infranta la disciplina sociale moderna, aprendo un varco alle tendenze atavistiche latenti nell’animo umano. Una volta scatenatosi ed affermatosi, questo atteggiamento di conquista diventa centro di impulsi e di azioni, che risolve secondo la sua intima natura i problemi di fronte ai quali si trova. Nella società moderna il rapporto tra signori e servi è realizzato nel modo più coerente dal razzismo tedesco. Il mito razzista, per inconsistente che possa essere alla luce della conoscenza scientifica, rappresenta il criterio ideale con cui vengono fissate le gerarchie dei valori, e viene elaborata la divisione dell’umanità in caste. Tutte le energie politiche, sociali, economiche e culturali che la società era venuta sviluppando, sono trasformate in strumenti di dominio dei signori. Il paese è organizzato in una specie di collettivismo razzista di tipo spartano: cioè una organizzazione militare, atta a tener ferme le distinzioni fra dominatori e dominati, ad impedire scissioni fra i primi, a sfruttare i servi di grado inferiore a vantaggio dei signori e dei servi di grado superiore, cioè del popolo cosiddetto dominatore. Questo è in realtà esso stesso un docile strumento in mano alle ristrette caste veramente dominanti, ed è adoperato per sottomettere altri popoli. Al disotto dei tedeschi stanno già, come servi di ordine inferiore, i cechi, i polacchi, gli ebrei, ecc. (1). Il dominio e il conseguente diritto di sfruttamento giungono dove può giungere la forza. Nessuno scrupolo verso altri ha ragione di essere, perché gli altri sono per definizione strumenti od ostacoli, servi o nemici.

3°) L’assurda anarchia dell’organizzazione internazionale europea è il termine più propizio che sia possibile immaginare per l’esplicazione piena del razzismo. Esso è portato senz’altro a tentare di organizzare il continente e le sue appendici coloniali come campo di sfruttamento da parte della razza dominante. Le contraddizioni sorgenti dall’esistenza degli stati nazionali non esisterebbero in tal caso più, ma la loro soluzione sarebbe per tutta un’epoca quella dello sfruttamento e della colonizzazione militare di tutta l’Europa a vantaggio di una sola comunità nazionale. Assolutamente privo d’importanza è lo stare a speculare sia intorno alle forme giuridiche che questo impero potrebbe assumere, sia intorno a quelle economiche. Lo sfruttamento può prendere aspetti collettivistici di imposizione di tributi alle comunità sottomesse, o aspetti capitalistici di provvedimenti restrittivi che facciano funzionare il mercato nel senso voluto.

Quali che possano essere gli ulteriori sviluppi di questo regime, certo è che la sua vittoria significherebbe l’instaurazione di un tipo di civiltà di caste, totalmente diverse da quello lungo il quale l’Europa era andata sinora sviluppandosi. L’orientamento nazista potrebbe realizzarsi in modo intelligente e stupido, ma è da notare che i fini che si propone non sono irrealizzabili per contraddizioni interne, e i mezzi che adopera possono essere anch’essi coerenti. Non c’è perciò da attendersi ragionevolmente che sia destinato a sfasciarsi per intima inconsistenza. Il significato profondo della guerra odierna, al di là dei particolari problemi politici ed economici che essa implica, non è perciò quello di una guerra di imperialismi economici né di una guerra di nazioni più o meno prepotenti. È quello di una guerra di civiltà, fatta per decidere se la nostra vita debba o no soggiacere a quel ricorso atavistico. Chiunque abbia un po’ di conoscenza di storia dei popoli primitivi, sa che questo è il loro naturale modo di comportarsi. L’esitazione ad applicare queste categorie agli avvenimenti odierni, proviene semplicemente dall’opinione, del tutto ingiustificata, che le forme di civiltà barbarica sieno connesse con uno stadio di conoscenze tecniche molto basse, e che sieno perciò oggi impossibili. In realtà sono solo connesse con atteggiamenti spirituali molto elementari, e possono star benissimo assieme agli aeroplani e alla radio.



II. — LA DEMOCRAZIA E L’UNITÀ EUROPEA.


1°) La più comune esperienza mostra che l’uomo, quando si trova implicato in una situazione che sconcerti le sue tradizionali abitudini e presenti aspetti nuovi, tende con estrema facilità a negare il nuovo problema, a ricondurlo al vecchio, a ricostituire gli antichi schemi di condotta, nei quali tutto si svolgeva in modo «ragionevole», cioè riposante. La volontà che sembra tesa verso la creazione, è invece quasi sempre rivolta verso la restaurazione del già noto.

Non si può trattare con disprezzo questo atteggiamento, poiché è il fondamento della continuità nella vita dei singoli e dei gruppi. Non si potrebbe far nulla di serio, se si pretendesse di ricominciare ogni volta tutto da capo. Normalmente ci si appropria di una esperienza nuova riconducendola a motivi ed abiti già noti. Ma è un orientamento che diventa del tutto assurdo, ed è alimentato non più dalla ragionevolezza, ma dalla nostalgia, quando tende a proseguir fini e ad applicar mezzi i quali, per la loro natura e per le circostanze in cui possono ormai essere realizzati, conducono inevitabilmente alla rovina di quel che si vorrebbe veder consolidato. Per misurare perciò il valore positivo o negativo di questo orientamento, occorre esaminare la coerenza dei suoi fini e dei suoi mezzi.

Il modo più caratteristico in cui questo atteggiamento oggi si presenta nella vita politica, è quello della restaurazione democratica nazionale, che vorrebbe veder ristabiliti i due principii fondamentali su cui poggiava e si era sviluppata la civiltà europea del secolo diciannovesimo, e che il corso degli avvenimenti ha fatto crollare: cioè il principio secondo cui ogni nazione ha il diritto di organizzarsi in uno stato sovrano assolutamente indipendente; e quello secondo cui l’uomo ha imparato ad essere più o meno rispettoso della personalità altrui nell’ambito delle leggi esistenti, ed esigere dagli altri lo stesso rispetto verso di sé, ed a svolgere così in modo libero e spontaneo la propria personalità, indisturbato per quanto concerne le sue esigenze individuali, o in volontaria collaborazione coi consenzienti per quanto concerne le esigenze collettive.

2°) Attribuiamo per un momento a questi restauratori il massimo di intelligenza e di fortuna nella loro eventuale opera. Poniamo che riescano dovunque a fondare nei vari stati istituzioni libere in cui sieno rispettati nel miglior modo possibile i sentimenti delle tradizionali nazionalità; sieno ridotte a un livello insignificante le influenze sinistre di gruppi particolari, in modo che la legge possa veramente imperare eguale per tutti; sieno eliminati tutti i protezionismi e tutte le limitazioni migratorie fra paese e paese; sieno sostanzialmente ridotte tutte le spese per gli armamenti; l’attività dello stato sia insomma rivolta non alla sopraffazione verso l’esterno, ma al perseguimento dei comuni interessi dei suoi cittadini.

In tale ipotesi sarebbe certamente possibile una ripresa, per tutta un’epoca storica, della civiltà democratica nazionale, purificata anzi dalle gravi tare che ebbe nel passato. Si noti però che, in tutta questa sistemazione, il punto più debole è quello costituito dall’organizzazione internazionale. Mentre nel campo nazionale il restauratore intelligente capisce che è necessario non affidarsi semplicemente alla buona volontà dei cittadini, ma provvede a stabilire un saldo corpo di leggi fornite di potere coercitivo onde raffrenare e indirizzare le singole attività, i rapporti tra i vari stati restano basati esclusivamente sulla buona volontà pacifica di ciascuno di essi, nel presupposto di una completa coincidenza dell’interesse dei singoli stati con l’interesse della collettività degli stati stessi.

Ma questo presupposto non è vero; è vero anzi il presupposto contrario. In assenza di proibizioni, è possibilissimo procurarsi posizioni che rappresentino un danno per altri ed un vantaggio per sé. Perché un tale abuso accada, non è necessario supporre una particolare perversa volontà di sopraffazione; basta che uno stato pensi che suo dovere sia, non già di provvedere al benessere di tutti gli uomini, ma a quello dei suoi cittadini.

Lo stato nazionale è costruito appunto a questo scopo; esso è organicamente inadatto a vedere gli interessi di tutti gli uomini. Mille e una occasione si presenterebbero ad ogni istante, nelle quali l’interesse di particolari gruppi geografici sarebbe meglio favorito danneggiando anziché rispettando l’interesse di tutti gli altri paesi. Nulla esisterebbe che potrebbe trattenere dall’imboccare questa strada. Ma una volta presa, diventerebbe pressoché impossibile trarsi fuori dall’ingranaggio che impone ad ogni stato di difendere gli interessi lesi dagli abusi altrui, ricorrendo infine alla forza per farli valere. Ricomincerebbe la militarizzazione progressiva dei singoli paesi, micidiale per qualsiasi sano regime di libertà; si ripeterebbe il ciclo già percorso due volte fra il 1870 e il 1914 e fra il 1918 e il 1938. La restaurazione democratica nazionale poggerebbe perciò, anche nella migliore delle ipotesi, su basi quanto mai precarie.

3°) Ma abbiamo in realtà reso troppo facile il compito ai restauratori, attribuendo loro una intelligenza ed una fortuna che non ci si può ragionevolmente attendere. I dati effettivi tra cui i restauratori dovrebbero muoversi sono tali che lo slittamento verso il militarismo diventerebbe non solo molto probabile, ma possiamo dire, ineluttabile. In primo luogo non sono atti a prendere le necessarie misure per creare delle perfette democrazie nazionali. Per procedere a questa opera dovrebbero saper utilizzare, ma non subire le pressioni particolari giungenti dal basso. Per loro natura, invece, sono portati a far proprie e ad esprimere le aspirazioni spontanee delle masse, cui fanno appello come sovrane.

Se analizziamo le principali aspirazioni da cui queste masse sono tradizionalmente mosse nei vari paesi europei, troviamo che sono suscettibilissime di lasciarsi influenzare da motivi patriottici, classisti o sezionali. Vale a dire che son pronte ad esigere dai loro capi la difesa o la realizzazione di interessi concernenti la potenza e il prestigio del loro paese; o concernenti i privilegi di questa o quella classe, o concernenti i guadagni di questo o quel gruppo di mercato. Questi interessi possono essere fondati o immaginari, ma sono comunque sempre parziali, ed effettivamente incuranti nel modo più assoluto dei veri interessi generali, quantunque spesso camuffati come tali (2).

I democratici, desiderosi di rappresentare la volontà popolare, facilmente finirebbero per diventare, nelle loro varie tendenze, strumenti di questo o quel gruppo particolare, mirante a conquistare la direzione dello stato e ad impiegarne la forza per far valere i propri particolari interessi. Ma qualsiasi esclusivismo, economico, sentimentale, o ideologico, disponendo dell’arma sfrenata dello stato sovrano evocherebbe contromisure analoghe da parte di altri stati, avvelenando rapidamente l’atmosfera europea e generando di nuovo pericoli di guerra.

La mitologia democratica propende a credere che le guerre sieno dovute solo a loschi interessi di piccole minoranze, che le grandi masse sieno fondamentalmente pacifiche. Perciò, si pensa, quando i governi poggeranno su di esse, il pericolo delle guerre sarà praticamente eliminato. Si è affermato un tempo che le guerre erano causate dai particolari interessi dei re assoluti (3) e che sarebbero scomparse dalla faccia della terra il giorno in cui in tutti i paesi i popoli avessero potuto far valere le loro pacifiche intenzione. Si è invece visto che le democrazie, anche le più rispettose all’interno dei diritti dei loro cittadini, non trasportavano affatto queste loro virtù nei rapporti con l’estero, nei quali rimanevano egoiste, disposte all’esclusione e alla sopraffazione dei rivali. Anche in esse infatti, potevano benissimo farsi valere interessi particolaristici — talvolta dell’intero gruppo geografico, tal’altra di più ristretti gruppi (4), i quali finivano per proseguire la politica dei re assoluti. La rapidità con cui i nuovi stati sorti dalla rivoluzione francese e russa hanno ripreso in pieno la politica estera difensiva e offensiva dei rispettivi anciens régimes, appena mascherandole con le nuove parole, può essere istruttiva.

Non è infatti da credere che ci sieno strati della popolazione sulla cui avversione alla guerra si possa contare come su una peculiare virtù. Pacifisti sono solo i deboli che sanno a priori di essere battuti, o di essere impiegati come strumenti dei forti per fini non loro, e che deplorano, come si può ben comprendere, questo stato di cose. Coloro che dispongono della forza, se non c’è una legge superiore ad imporre una disciplina, sono sempre inclini ad adoperarla per difendersi, o per offendere. Perciò anche un popolo, una classe o un gruppo sociale qualsiasi, pacifista finché non disponga del potere, sarà pronto, quando lo detenga, ad impiegarlo per acquistare o difendere un privilegio. E in questo atteggiamento sta la radice della bellicosità.

4°) In secondo luogo, una tale restaurazione, tenendo come fulcro lo stato nazionale sovrano, prende per questo solo fatto una piega fatale, anche a prescindere dalla propensione democratica a farsi portavoce di interessi particolaristici, sentiti dalle masse.

Parlando dello stato moderno, non si deve prendere in considerazione solamente la sua possibilità di abusare della sovranità illimitata. Ancor più occorre tener conto del fatto che intorno allo stato si è consolidata tutta una fortissima tradizione storica, la quale gli attribuisce una specie di mistico valore assoluto. Lo stato deve ubbidire incondizionata-mente all’imperativo categorico che gli ordina di affermarsi e rafforzarsi. La civiltà moderna è riuscita a domare la prepotenza e la riottosità feudale solo a patto di attribuire tutta l’illimitatezza dei diritti che si toglievano agli individui, all’organismo statale sovrano che ad essi si sostituiva. È interessante notare che proprio quei paesi il cui regime è sorto dal regime feudale per diretta filiazione, non hanno attraversato questa fase di esaltazione dello stato, rintuzzandola anzi quando ha cercato di imporsi; e sono perciò anche i soli paesi che non hanno misticamente attribuito allo stato un assoluto fine a sé stesso, concependolo invece sempre solo come uno strumento per realizzare gli interessi comuni (5). In tutti gli altri paesi, dal più al meno, ed in modo preminente in Francia nel XVII e nel XVIII secolo, e in Germania nel XIX e XX, lo stato ha subito questa selvaggia deificazione, che ha avuto la sua incarnazione nella monarchia assoluta. Le democrazie europee si sono limitate a restringerne l’onnipotenza all’interno, lasciando intatto sotto ogni altro aspetto il suo trascendente valore assoluto, rafforzandolo anzi, coll’aggiungervi tutte le passioni nazionali che si andavano sempre più sviluppando, man mano che strati sempre più larghi del popolo partecipavano alla vita dello stato, vedendo legate al suo destino le proprie fortune.

Ora, è pur vero che astrattamente è concepibile che i restauratori democratici possano radicalmente estirpare questa tradizione, e ricostituire stati nazionali fondati solo su chiari presupposti razionali, scevri di ogni mistica deificazione (quantunque, se fossero talmente liberi dai tabù dello stato sovrano, non si capirebbe perché debbano sentire così urgente il bisogno di ricostituirlo, malgrado gli evidentissimi suoi inconvenienti). Ma questa radicale ricostruzione non è in realtà possibile, per poco che si rifletta alle effettive con-dizioni di fronte alle quali si troverebbero i restauratori.

Essi contano, come si è detto, di ristabilire le libertà popolari, quantunque sappiano che non tutti saranno disposti a rispettare le regole di gioco. Talmente è radicata in loro la credenza nella naturalezza del modo di comportarsi dell’uomo civile del secolo diciannovesimo, talmente sono convinti che spontaneamente le masse sieno capaci di scegliere la via buona, da credere ingenuamente che basterà fare opera di persuasione perché i veli cadano da occhi desiderosi solo di vedere, e si formino le necessarie maggioranze occorrenti per far funzionare i meccanismi democratici. Ma l’uomo fondamentalmente buono è un mito illuministico; le masse (popoli, classi ed altro) in cui misticamente alberghi una missione universale, sono un mito romantico; e nessuno dei due miti resiste all’esame critico. Le masse, di qualsiasi ceto sociale, spontaneamente sono solo capaci di provvedere ai propri interessi immediati, ricorrendo alla sopraffazione tutte le volte che appaion loro condizioni di successo. L’uomo civile che sa rispettare la libertà altrui e cooperare liberamente con gli altri, è forse la più elevata creazione che lo spirito umano si riuscita ad elaborare; ma è un frutto possibile solo se c’è come premessa un quadro di istituzioni disciplinatrici dei suoi impulsi.

Perciò il restauratore democratico può sì sognare i più rosei quadri di masse liberate dalla tirannide, le quali, commettendo magari qualche accidentale errore o atto terroristico di giusta vendetta, stabiliscano sovranamente di camminare dal momento della liberazione sulla via del progresso; ma, non appena passi dal sogno alla realtà, deve fare affidamento già preliminarmente su alcune salde istituzioni tradizionalmente riconosciute ed accettate dagli uomini, le quali possano costituire la prima necessaria cornice legale entro cui vengono ad esplicarsi le libertà popolari.

Il principale organismo che gli si offre per poter svolgere questa funzione, è lo stato nazionale. Ben lungi dal distruggerlo radicalmente, il restauratore che voglia fare una politica realistica, deve cercare di salvare nei momenti critici tutto quel che sia possibile salvare della forza dello stato, deve sostenere tutti i pilastri nel momento che minacciano di crollare, se non vuol veder naufragare completamente il suo sogno. Ogni altra esigenza passa in seconda linea di fronte a questa. Tale è il motivo profondo per cui i democratici tedeschi e spagnuoli, per non citare che i due esempi più recenti, hanno proceduto con tanta cautela rispetto alle tradizionali istituzioni dei loro stati, lasciando intatti gli apparati essenziali, malgrado la loro proclamata avversione ad essi. Ed è questo il motivo profondo per cui in altri paesi si vedono i restauratori rivolgersi ansiosamente, quando sentono avvicinarsi la tempesta, alle più conservatrici istituzioni, per le quali non hanno grande simpatia, ma che debbono sperare restino in piedi, fornendo loro un saldo sostegno.

Ora una situazione di tal genere non è davvero la più propizia per venire a capo delle tradizioni assolutistiche che compenetrano ogni poro dello stato nazionale europeo. Queste tradizioni potranno transitoriamente restar sommerse dalla marea popolare, ma rimarranno fisse nel modo di pensare della burocrazia statale, delle forze armate, della magistratura, delle scuole, e cercheranno di riaffermarsi ad ogni occasione, riconquistando il terreno perduto, man mano che la prima ondata sovvertitrice si plachi e gli uomini rientrino nella vita normale, nella quale tornino a veder troneggiare la divinità dello stato. La storia della repubblica di Weimar può essere presa come il caso tipico dei problemi in cui il restauratore democratico nazionale viene a trovarsi inestricabilmente impigliato. Per dare alla Germania una democrazia, i democratici hanno dovuto conservare i meccanismi dell’ordine: burocrazia, magistratura, quadri militari. E questi hanno poi inghiottito la democrazia (6).

Né bisogna, per ultimo, dimenticare che una restaurazione democratica nazionale significherebbe, data l’importanza politica ormai assunta da larghe masse popolari, una serie di estese misure nel senso di una maggiore eguaglianza economica. Ma questa implica un maggior numero di vincoli imposti dall’attività centrale all’attività dei singoli e dei gruppi, cioè una maggiore abitudine di disciplina nei popoli. Mentre dunque resterebbero in piedi tutti i motivi e le occasioni di attriti internazionali, mentre si sarebbe contribuito a salvare la stessa organizzazione cui gli europei attribuiscono tradizionalmente l’incontestato diritto di chiamarli a combattere e a morire, si svilupperebbero ulteriormente trasformazioni sociali che faciliterebbero enormemente una rapidissima totale militarizzazione dei vari paesi.

5°) L’assurdità della restaurazione democratica nazionale balza chiarissima agli occhi se si applicano tutte le precedenti considerazioni al concreto caso tedesco, che costituisce il problema centrale della vita europea. In Germania, la posizione geografica, le tradizioni storiche, gli interessi reali e immaginari dei singoli ceti e dell’intero popolo, la divinizzazione della potenza statale, la boria nazionale, l’esistenza di un’aristocrazia fondiaria e di un vasto ceto di ufficiali abituati al comando, le abitudini di ubbidienza del popolo, spingerebbero irresistibilmente, in un sistema internazionale di stati sovrani, qualsiasi regime a far uso della guerra. Tutte queste tendenze, anche se fossero per un momento represse, resterebbero sempre fortissime, quando pure in Germania si stabilisse, come avvenne nel 1918, una democrazia; lo sarebbero anche se artificiosamente si riuscisse a spezzare per qualche tempo, come si pensa da taluno, la sua unità statale. Le più larghe concessioni non riuscirebbero a placarla, se pure gli uomini politici degli altri stati fossero così imbecilli da mostrarsi generosi, col rischio di vederla dopo poco minacciosa in armi, più formidabile di prima. Le diffidenze e restrizioni che prevedibilmente la circonderebbero, contribuirebbero solo ad irrigidirla nella sua aspirazione al dominio. Ma con una Germania così fatta, nessun altro paese potrebbe fare a meno di essere militarista.

Bisogna essere ben ingenui per credere, dopo aver riflettuto su tutti questi problemi che, restaurati gli stati democratici nazionali, vi sia la pur minima probabilità che questi si avviino e permangano su una strada di pacifica convivenza, in capo al quale arrivino, nel debito corso del tempo, alla maturità politica necessaria perché tutti risultino convinti della convenienza di una istituzione super-statale, in modo che la federazione non si imponga ai popoli liberi, ma sia solo la simbolica espressione dell’ormai connaturata capacità di vivere senza guerre. Tutto quello che gli stati sovrani saprebbero fare in un momento di nausea per gli orrori della guerra, sarebbe una nuova S. d. N., cioè un’istituzione di unità solo simbolica, priva di qualsiasi forza effettiva, che non toglierebbe neppure un briciolo alla loro sovranità, ed in cui i rappresentanti delle potenze si riunirebbero a far mostra di pacifiche intenzioni, fino al momento in cui fosse di nuovo giunta l’occasione di battersi. E ci sarebbe magari di nuovo una serie di conferenze sul disarmo, che si aggirerebbero attorno all’insolubile problema di riuscire a trovare formule in cui ciascuno stato vedesse diminuire gli armamenti altrui, senza diminuire i propri.

È difficile rintracciare nella storia dell’umanità un altro periodo in cui abitudini civili sieno state così diffuse come nell’Europa del secolo XIX. La tragica agonia di quell’epoca ha pochi elementi casuali, e, quasi a controprova della sua ineluttabilità, la stessa generazione che ha visto la prima catastrofe, assiste ora al suo ripetersi. Non c’è proprio nulla di meglio da fare che prepararsi a ripercorrere ciecamente per una terza volta questo ciclo, accettandolo come un fato a cui non si possa cercar di sottrarsi? Non sarebbe meglio allora, malgrado una inevitabile ricaduta nella barbarie, la soluzione razzista, la quale spazzerebbe comunque via queste assurdità?

L’analisi dell’orientamento restaurazionista, ci ha dunque portati alla conclusione che, essendo prigioniero tanto del tabù dello stato nazionale sovrano quanto di quello della sovranità popolare, esso è divenuto intimamente contradittorio ed è perciò assolutamente incapace di ispirare l’operosità oc-corrente e liberare l’umanità dagli errori in cui si dibatte.


III. — IL COMUNISMO E L’UNITÀ EUROPEA.


1°) La cultura dei singoli e la civiltà dei popoli è tanto più elevata quanto è più ricca di finalità operanti, e quanto meglio riesce a farle convivere. Perché cultura e civiltà possano progredire, occorre perciò da una parte il lavoro di elaborazione degli strumenti atti a raggiungere fini determinati, dall’altra il lavoro di armonizzazione fra i vari fini. Il primo compito spetta all’intelletto, per il quale i fini sono dei presupposti, e che deve mirare solo al rigore logico con cui fa le sue costruzioni. Il secondo è il compito della saggezza, la quale stabilisce il punto oltre il quale non è più conveniente perseguire un fine particolare, poiché diversamente ne verrebbero soffocati altri cui egualmente si tiene; e cerca di concentrare l’attenzione su quelli che, in rapporto alle circostanze di fatto esistenti, acquistano un valore centrale, ed intorno ai quali vanno disponendosi e graduandosi variamente gli altri.

Ora, esser coerenti, quantunque sia abbastanza difficile, è infinitamente più facile che esser saggi, e accade di frequente che la cristallizzazione di energie causata dal perseguimento di un particolare fine, faccia talmente sfuggire la visuale, da nascondere il suo nesso con gli altri fini. E poiché l’importanza e l’utilità di un fine dipendono proprio da questo nesso, il risultato di questo atteggiamento consequenziario è che, se anche quello scopo specifico è raggiunto, si consegue qualcosa di deforme, immeritevole dello sforzo compiuto, e che non contribuisce affatto, come pur si sarebbe voluto, all’elevazione della vita umana.

Il più cospicuo orientamento consequenziario dei nostri giorni nel campo della politica, è quello comunista, il quale risponde originariamente al fine delle classi operaie di liberarsi dalla miseria in cui si trovano e di aver così l’opportunità di godere dei frutti della civiltà, da gran parte dei quali sono escluse. Esso risponde perciò ad una esigenza che ha il suo naturale posto nella linea di sviluppo della nostra civiltà. Non è qui il luogo di occuparci dell’origine e degli svolgimenti del comunismo nel suo complesso, né di chiederci se l’unilateralità con cui ha determinato il suo fine o lo persegue, tenda effettivamente a produrre il desiderato ampliamento della civiltà moderna. Ci interessa solo esaminare la sua posizione di fronte al problema dell’anarchia internazionale.

Potrebbe sembrare che ci siamo qui infine imbattuti in uomini i quali abbiano intravisto la soluzione. I comunisti denunziano infatti da tempo in modo vigoroso l’imperialismo generatore di guerre, non sono legati a tabù nazionali, ed auspicano l’unione dei popoli. Se però si esamina più da vicino questa loro propaganda, si scorge senza possibilità di equivoco che in realtà i comunisti, come i democratici, non hanno mai seriamente affrontato il problema dell’ordine internazionale, e sperano che si risolverà da solo. Quantunque sia evidente che questo problema ha acquistato un’importanza centrale, e che è il suo modo di soluzione a dare un senso agli altri connessi problemi della nostra civiltà, il consequenziario comunista non riesce a rendersene conto, e continua a credere che la questione centrale sia quella dell’abolizione del capitalismo. Raggiunta questa, tutto il resto verrebbe da sé, quasi per grazia divina. L’internazionalismo socialista e comunista è dello stesso tipo di quello democratico. Come questo crede che i popoli andranno d’accordo spontaneamente purché si eliminino i regimi dispotici, così i comunisti credono che i proletari aboliranno imperialismo e guerre, per il solo fatto di abolire nei loro paesi il capitalismo.

Esaminiamo infatti più particolarmente il loro atteggiamento rispetto alla nostra questione.

Dopo l’epoca della formulazione dei cosidetti «utopisti» che pensavano alla costituzione di piccole comunità autarchiche, gestite collettivamente, il pensiero socialista, allargando i suoi orizzonti, è giunto all’idea che solo una organizzazione collettivista abbracciante l’intera umanità poteva funzionare in modo effettivo. Questa idea non era tuttavia una reale direttiva d’azione, ma costituiva semplicemente l’immaginario prolungamento nel futuro di tendenze che si assumevano senz’altro come già operanti in modo irresistibile in quell’epoca. Si erano convinti che il regime borghese spingesse in questo senso, e che non ci fosse altro da fare che procedere oltre. «Le delimitazioni e gli antagonismi dei popoli — scriveva Marx nel 1848 — vanno via via sparendo, per lo stesso sviluppo della borghesia, per la libertà di commercio, per l’azione del mercato mondiale, per l’uniformità della produzione industriale e per le condizioni di esistenza che ne derivano. Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletari dei paesi civilizzati, è una condizione prima della liberazione del proletariato. A misura che verrà abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione sull’altra. Caduto che sia il contrasto delle classi nell’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse».

Come si vede, il collegamento delle idee è il seguente:

1°) Esistenza di una tendenza borghese all’eliminazione dei contrasti internazionali;

2°) Abolizione del contrasto delle classi nell’interno delle singole nazioni;

3°) Conseguente automatico perfezionamento di quella tendenza internazionalizzatrice. L’azione combinata dei proletari dei principali paesi non ha che da camminare su una strada già tracciata. Che nessun particolare sforzo occorresse per tracciarla, è dimostrato dal fatto che, quantunque quel concentramento di azione sia considerato come una delle con-dizioni prime, tuttavia Marx non sentiva nessuna contraddizione nell’affermazione che precede immediatamente il brano citato: «Poiché il proletariato di ogni paese deve anzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, perciò esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in senso affatto diverso da quello della borghesia».

2°) La prospettiva cobdenista, accettata in pieno da Marx, secondo la quale l’intensificazione dei traffici tra i popoli avrebbe abolito gli antagonismi nazionali, è risultata errata. È vero che grandi interessi capitalistici esistevano ed esistono tuttora, i quali sono favorevoli al libero scambio, ma lo sviluppo effettivo è stato un rafforzamento degli antagonismi nazionali, i quali hanno disturbato, rallentato, e quasi finito col distruggere i traffici economici. Questo contrasto tra la teoria e lo sviluppo generale storico ha portato i socialisti, e quindi i comunisti, a rivedere il loro presupposto cobdenista, ma non ha portato a nessuna sostanziale alterazione nell’effettiva linea di condotta dei movimenti proletari.

Si è infatti stabilito, man mano che l’Europa cominciava a coprirsi di armamenti, che esisteva un nesso diverso tra capitalismo ed imperialismo. Non è qui il luogo di criticare questa teoria che generalizza e dà valore di legge assoluta a particolari casi di significato contingente, senza approfondirne l’analisi (7) Dobbiamo però osservare che di fronte al rilievo grandissimo dato in tutta la letteratura socialista al pericolo di guerra e al posto crescente che nella sua propaganda prendeva il tema internazionalista, non ci sono opere effettive del proletariato organizzato che abbiano contribuito a creare istituzioni capaci di ridurre veramente il pericolo di guerra, mentre ci sono atti che hanno contribuito, sia pure involontariamente, a creare attriti che accentuano la tensione internazionale.

Ma la teoria dell’imperialismo capitalista non doveva servire a far rivolgere gli sforzi dei proletari nel senso della lotta contro la guerra. Era un mezzo propagandistico diretto ad attirare le forze antimilitaristiche sul terreno anticapitalista. Da una parte ci si rendeva conto dell’antitesi fra spese militari e spese sociali, e si mirava perciò a deprimere quelle quanto più fosse possibile; e dall’altra c’era un più o meno demagogico venire incontro all’inconsistente pacifismo, caratteristico, come si è detto, di coloro che si sentono destinati ad essere strumenti passivi e non soggetti attivi della politica bellicosa.

3°) L’effettiva politica proletaria continuò a rimanere infatti anche dopo questa correzione teorica una politica di orizzonte nazionale, quantunque gli stati nazionali andassero diventando sempre più imperialisti. Ciò non si può attribuire semplicemente ad una casuale miopia dei socialisti, e tanto meno, come si è detto, talvolta, al loro «tradimento». La restrizione all’ambito nazionale è connaturata all’effettiva direzione dei partiti miranti all’instaurazione del collettivismo. Ogni misura collettivista significa infatti attribuzione della gestione di qualche settore economico al supremo potere po-litico, cioè al potere cui gli uomini riconoscono il diritto di legiferare sulla loro condotta.

Ora nell’Europa moderna il potere politico supremo è quello dello stato nazionale. Questo fatto segnava necessariamente i limiti della nazione. Sono esistiti tra socialisti sempre forti dissensi circa la convenienza di far prendere allo stato una serie gradualmente progressiva di misure di collettivizzazione, in modo da dargli un carattere man mano più socialista, o la convenienza di una radicale trasformazione in questo senso da raggiungere per via rivoluzionaria.

Ma queste divergenze, per importanti che possano essere sotto altri aspetti, sono irrilevanti per quel che concerne la questione del carattere nazionale o internazionale della politica da seguire. Lasciando da parte la tendenza socialista perché molto più incoerente, esaminiamo quella conseguente dei comunisti. Quando nel corso dell’altra guerra si aprirono prospettive di azione rivoluzionaria per l’instaurazione di un ordinamento socialista, il più rigoroso politico di questa tendenza, Lenin, tratteggiava in tal modo l’instaurazione del socialismo: «L’avocazione della vita economica allo stato, contro la quale il liberalismo capitalistico oppone resistenza, è ormai un fatto compiuto. Non soltanto alla libera concorrenza, ma neanche al dominio dei trusts, dei sindacati e di altre mostruosità economiche vi è alcun sintomo di ritorno. La questione sta unicamente nello stabilire chi in avvenire sarà il regolatore della produzione dello stato: lo stato imperialista o lo stato del proletariato vittorioso?» (8).

La rivoluzione socialista sarebbe stata per lui, conformemente alla dialettica marxista, la negazione, ma anche la più radicale prosecuzione del collettivismo di guerra, realizzato già in misura più o meno estesa dai regimi esistenti. Lenin si prospettava a ritmo acceleratissimo e attraverso una catastrofe, la realizzazione dello stesso processo perseguito dai socialisti riformisti. Come strumento della realizzazione socialista, non poteva perciò vedere altro che lo stato nazionale esistente, il quale aveva già così avviato l’opera di collettivizzazione.

I comunisti assicurano tuttavia che, una volta eliminata la borghesia colpevole degli attriti e delle guerre, gli stati socialisti nazionali non troverebbero nessuna difficoltà ad unificarsi ed a pianificare in modo unitario l’economia mondiale (9).

Ma quest’asserzione non è affatto dimostrata. È anzi di-mostrato precisamente il contrario.

In una economia collettivizzata, lo stato dispone delle risorse principale del paese, e procede secondo piani. Perciò i necessari scambi internazionali e i necessari spostamenti di lavoratori non si potrebbero svolgere in modo spontaneo, ma in base a trattative e ad accordi fra le varie comunità socialiste. Siamo di fronte non ad un caso di concorrenza semplice in cui le ragioni di scambio fra le merci e i salari sono determinati dal mercato in modo univoco. Il caso delle relazioni economiche tra comunità socialiste è invece del tipo che gli economisti hanno chiamato della concorrenza fra monopoloidi. I rapporti di scambio sono indeterminati. Ogni comunità più ricca e meglio ordinata tenderebbe a rifiutarsi di ricevere l’immigrazione dai paesi più poveri e specialmente da quelli che non saprebbero darsi un ordine politico soddisfacente. In regime capitalistico le tensioni internazionali avvengono di solito per restrizioni poste ai traffici; in regimi di socialisti nazionali le tensioni avverrebbero ogni volta che sorgesse il bisogno di fare uno scambio fra comunità. I contrasti economici sarebbero moltiplicati all’infinito, trasformando in questione di politica internazionale ogni rapporto commerciale con l’estero, e generando odi fra paesi ricchi di materie prime e paesi scarsamente forniti, fra paesi sovrapopolati e paesi a scarsa densità demografica.

E non ci sarebbero solo i motivi economici a generare attriti. Si può supporre che gli stati comunisti, sorgendo da radicali sovvertimenti, vengano a trovarsi, almeno al principio, completamente scevri del mistico spirito imperiale insito in tutte le istituzioni dello stato moderno. Ma la loro base sarebbe pur sempre la nazione, sia pure sbarazzata dai borghesi, e il compito supremo dello stato socialista resterebbe quello di provvedere all’interesse degli abitanti della nazione. Le differenze nazionali di cui da secoli è intessuta la vita europea, i contrasti per la delimitazione dei confini nelle zone di popolazione mista, il bisogno che ogni comunità nazionale sentirebbe di avere uno sbocco indipendente sul mare, ecc., non scomparirebbero per il fatto che le varie comunità nazionali fossero diventate socialiste. A questi tradizionali motivi di attrito si aggiungerebbero i dissensi ideologici nuovi che potrebbero sorgere fra i governanti comunisti dei vari stati, e che non potrebbero più essere liquidati con la facilità con cui ora la terza Internazionale modifica le centrali dei partiti comunisti. Non è facile immaginare una pacifica convivenza, poniamo, tra uno stato diretto da socialisti ed uno diretto da comunisti, o fra uno stato comunista staliniano e uno trotzkista.

Chiudendo questa breve rassegna dell’atmosfera internazionale in cui vivrebbero gli stati socialisti nazionali, dobbiamo dire che i punti intorno ai quali possono cristallizzarsi contrasti irrimediabili, sono innumerevoli, anzi si moltiplicano; i mezzi per risolversi, inesistenti. La conclusione da trarre è facilmente immaginabile: poiché la responsabilità dell’imperialismo non risale necessariamente al capitalismo, l’abolizione di quest’ultimo non sopprime l’imperialismo ma semplicemente toglie dal novero dei fattori che l’alimentano alcuni sinistri interessi capitalistici, aggiungendo in via di compenso alcuni interessi specificamente socialisti (10).

4°) Si potrebbe obiettare che la prospettiva di Lenin indica una via, ma non la sola via possibile per il raggiungimento del socialismo; e che i comunisti, non essendo prigionieri di alcun pregiudizio nazionalista, potrebbero anche impostare in modo corretto la lotta in termini di socialismo internazionale e di potere politico internazionale, più corrispondente al loro orientamento sentimentale internazionalista. In realtà non sembra ci sia oggi fra loro il minimo tentativo di avviare una tale impostazione. Disorientati, al pari dei democratici, dagli avvenimenti che hanno rovesciato tutti i loro tradizionali schemi e che li costringono a combattere a fianco niente meno che dei due stati più capitalistici del mondo, anche loro si rifugiano ora sulla linea di resistenza della democrazia nazionale, auspicando la ricostituzione degli stati sovrani democratici. Anche per loro, come per i democratici, benché per motivi diversi, lo stato nazionale è la premessa necessaria per il raggiungimento degli ulteriori fini. A rigore, nulla potrebbe impedire che essi, o alcuni di loro, riconoscessero che, essendo il comunismo realizzabile solo su scala internazionale, occorrerebbe prepararsi a far piani per combattere, se non per un unico stato socialista mondiale — troppo difficile a costruirsi — almeno per una federazione continentale europea (11). In realtà, per spostarsi sul terreno della lotta federale in modo effettivo, i comunisti dovrebbero sottoporre a una autocritica abbastanza profonda tutto il loro orientamento. Questo consiste in una «Fixierung» come direbbe Freud, di sentimenti, di idee, di tattica, di disciplina, di organizzazione, intorno al problema della lotta contro il capi-talismo. Tutto quel che non rientra in questi termini, è sottoposto ad una violenta deformazione o è ignorato. Sanno adattarsi mimeticamente alle più strane circostanze, ma il loro punto di riferimento è sempre lo stesso. Però, vedere nel capitalismo il nemico fondamentale da eliminare, implica proporsi di trasferire, non appena l’occasione se ne offra, la maggior parte dei mezzi di produzione dagli imprenditori privati allo stato. E l’unico stato esistente è quello nazionale. Ciò li chiude in un cerchio magico.

Per riuscire a comprendere che la questione dell’ordine internazionale è connessa con i problemi dell’ordinamento economico-sociale in modo più completo di quanto essi non ritengano, quella cristallizzazione dovrebbe essere rotta. Problema centrale diverrebbe il problema di dar forza al nuovo ordine internazionale, faccenda che in gran parte non ha a che fare coll’esistenza o meno del capitalismo, ma riguarda istituti politici, giudiziari, amministrativi, militari da creare. Non dovrebbero appellarsi più solo ai sentimenti anticapitalistici, poiché tutte le forze libero-scambiste sarebbero favorevoli al nuovo ordine. Il problema delle collettivizzazioni da eseguire esisterebbe pur sempre, ma come problema inquadrato fra gli altri necessari per un più vitale ordinamento della società europea, e non più come quello assolutamente preminente. Anche se in un più lontano futuro, quando la sovranità del nuovo stato federale fosse diventata una cosa perfettamente naturale per tutti, come oggi lo è quella dello stato nazionale, si dovesse ripresentare il problema se affidare o no allo stato federale la gestione esclusiva di tutta l’economia, certo è che tale domanda non potrebbe essere effettivamente proposta per tutta un’epoca, nella quale il compito politico fondamentale sarebbe quello di consolidare la nuova più ampia sovranità. La fusione delle varie economie nazionali in un’unica economia europea non potrebbe essere seriamente affrontata pensando di sovrapporre una pianificazione federale ai vari collettivismi nazionali, perché ciò presumerebbe uno strapotente governo federale. Occorrerebbe invece lasciar via libera alle spontanee forze del commercio, e cioè occorrerebbe demolire gran parte dei collettivismi nazionali esistenti, ad uno dei quali i comunisti si sentono fondamentalmente legati, e, quanto agli altri, hanno sempre pensato che bisognasse semplicemente spingerli ancor più innanzi in senso collettivista.

Sarebbero capaci i comunisti di eseguire una tale revisione di tutte le loro direttive? Si noti che non si tratta di fare una politica tattica. Nel nostro caso ciò servirebbe a ben poco. Non si tratta infatti di far proseliti mediante una bandiera buona ad attirare gli ingenui, per procedere poi con le forse acquisiste a realizzare il proprio programma di collettivizzazione ad oltranza appena riusciti ad acciuffare il potere. Si tratta infatti di capire che proprio questo programma è inadeguato al fine dell’unità europea.

Sarà bene indicare anche che cosa implicherebbe una tale revisione per il paese in cui il comunismo ha il potere in mano. In Russia sviluppare il tema dell’unità europea significa far compiere al popolo russo un altro passo verso la sfera della civiltà europea, e rientra perciò nella secolare faticosa tendenza russa ad occidentalizzarsi. Ma significa anche la necessità di smontare buona parte del sistema economico creato, e degli interessi economici e politici che vi sono cristallizzati intorno.

5°) Il collettivismo nazionale non è dunque un rimedio contro l’imperialismo. Il tema non è però esaurito, perché occorre tenere ancora presente che la tendenza al collettivismo non è, come credono i comunisti, una tendenza specifica del proletariato.

Il proletariato, come tutte le classi più povere, ha interesse a misure di collettivizzazione giungenti solo fino al punto in cui si vengano a sopprimere privilegi, monopoli, ed in genere possibilità di sfruttare ad esclusivo vantaggio di singoli, e con danno della collettività. Ma, come qualsiasi altro ceto non parassitario, i proletari hanno interesse ad essere liberi di lavorare e produrre secondo la loro scelta, le loro capacità e a loro rischio.

La tendenza al collettivismo totale è invece profondamente inerente allo stato militarista. Uno stato, il cui fine più importante sia quello di prepararsi alla guerra e di condurla, non può fare a meno di stender le mani su tutte le risorse umane e materiali di cui ha bisogno. È noto che Napoleone attuò molte statizzazioni, e molte più ne progettò, non per rispondere agli interessi della borghesia, ma onde poter disporre di maggiori risorse per condurre la guerra. L’unica differenza fra i tempi di Napoleone e i nostri è che ormai la guerra non esige più solo l’impegno di una quota delle ricchezze degli uomini di un paese, ma praticamente l’utilizzazione al cento per cento delle risorse del paese in cui lo stato è sovrano; cioè spinge alla realizzazione di un radicale collettivismo. Gli esempi dell’altra guerra e di questa parlano da sé.

Se esaminiamo con occhio spregiudicato la storia successiva al 1918, vediamo che il comunismo ha sì vinto solo in un paese, ma che tanto in quello come in tutti gli altri in cui non è riuscito o è stato represso nel modo più duro, la nazionalizzazione ha fatto notevoli passi innanzi (12), servendo a facilitare e rafforzare sempre più le politiche militariste. Ma questa nazionalizzazione ha avuto ben poco a che fare (salvo che nelle varie spicciole propagande) coll’effettiva emancipazione delle classi lavoratrici. Anche in Russia, dove si è realizzata più che altrove secondo le vedute dei comunisti, poiché il socialismo è stato costruito da loro stessi, ha sì contribuito a far progredire un popolo arretratissimo, ma non tanto a farlo progredire nel senso di una elevazione delle classi lavoratrici, quanto in quello di una maggiore potenza militare. La perdita della libertà di movimento per gli operai e per i contadini, la crescente differenziazione fra il tenore di vita dei lavoratori e quello della burocrazia dirigente, la dura repressione di ogni libertà, fan rimanere molto scettici circa il raggiungimento del primo scopo. L’energia mostrata, nel tenere testa alla Germania mostra il consegui-mento del secondo.

I motivi propagandistici su cui i comunisti fan leva per adunare forze sufficienti per dare l’assalto alla cittadella capitalistica, possono essere adoprati con altrettanta efficacia da coloro che vogliono sviluppare il collettivismo militarista, come hanno mostrato in modo quanto mai brillante i nazisti. Costoro possono inoltre, a differenza dei comunisti, raddoppiare l’efficacia della loro propaganda, aggiungendo ai motivi anticapitalistici quelli nazionali che risultano essere i più profondamente sentiti dal volgo moderno.

Ma se anche, nonostante la formidabile concorrenza della propaganda del collettivismo militarista, i comunisti potessero riuscire a vincere in tutta una serie di paesi e ad instaurare i collettivismi proletari, avrebbero lasciato assolutamente intatto tutto l’anarchico sistema degli stati nazionali coi loro «sacri egoismi» finendo con lo scivolare anche essi ineluttabilmente sul terreno del loro avversario, del collettivismo militarista.


IV. — LA FEDERAZIONE EUROPEA.


1°) Può darsi che la nostra civiltà non riesca a superare la crisi attuale, e che, dopo una lunga agonia, dia luogo a formazioni più primitive e rozze. Non c’è nessun piano provvidenziale, nessuna necessità storica che ne imponga l’ulteriore prosecuzione. Se questa avrà luogo, sarà solo perché gli uomini sapranno concentrare attenzione e sforzi sufficienti per individuare i mali che la minano e per mettere in opera i necessari rimedi. E lo faranno, se ci terranno a conservare i principali valori che la compongono. Se non si attribuisce alcun valore alla libertà, cioè ad un tipo di società in cui gli individui non sieno strumenti di forze che li trascendono, ma autonomi centri di vita, se non si attribuisce valore alla giustizia, cioè a un tipo di società in cui la libertà non sia riservata a piccole minoranze privilegiate, ma sia un bene effettivo, e non solo formale, di cui dispongano strati sempre più vasti — non vale la pena di occuparsi della salvezza della nostra civiltà. Non è possibile dimostrare che questi fini debbano essere perseguiti e non tenteremo perciò di assumerci l’impossibile compito. «Questo discorso — per adoperare le parole di Meister Eckhart — non è detto per alcuno se non per chi lo chiama suo come la propria vita, od almeno lo possiede come una brama del cuore».

Ma non basta tenere a quei valori. Ci si può tenere in modo irragionevole, non immaginandone la realizzazione altro che nelle forme vecchie o in forme unilateralmente consequenziarie. In ambedue i casi il risultato è, come si è visto, negativo, perché non si è saputo scorgere il ragionevole coordinamento dei fini e la costruzione adeguata dei mezzi.

Nell’armonia continuamente variabile dei molteplici fini scaturenti dall’orientamento della civiltà europea, a volta a volta alcuni di essi acquistano un’importanza preminente, dando il tono a tutti gli altri. Proprio a causa della reciproca relazione esistente fra tutti, non è però possibile procedere ogni volta a realizzare in modo esauriente quello centrale, creando tutti gli ordinamenti necessari per renderlo operante in pieno, e poi passare man mano agli altri. Al contrario, dal modo stesso come si vien lavorando, nasce un continuo spostamento nell’ordine dei valori, e l’attenzione si deve con-centrare su un altro punto. Così, prima ancora che fosse esaurito il compito civilizzatore delle monarchie assolute, precedente alla estirpazione dell’anarchia feudale ed allo stabilimento dell’impero della legge nell’interno delle singole nazioni, diventò preminente l’esigenza di far partecipare strati via via più larghi dei popoli alla determinazione delle leggi stesse. E, avviata la formazione di ordinamenti politici liberi, si spingeva al primo piano il processo contro le disuguaglianze sociali. Ma tutto questo lungo e complesso lavorio ha reso acutissimo il problema dell’ordine internazionale e dal modo come questo è risolto dipende ormai la possibilità del perseguimento armonico degli altri fini. Credere che il male scaturente dall’anarchia internazionale guarirà da sé, e che si debba continuare ad occuparsi delle cose secondo il vecchio ordine, è fare la politica dello struzzo. Abbandonata a sé, l’anarchia internazionale si risolve nella distruzione della stessa civiltà moderna, e nella costituzione di un impero militarista basato sul principio della signoria dei vincitori e della servitù dei vinti. Non rendersi conto di ciò, significa comportarsi irrazionalmente, o, per adoperare una parola più semplice, stupidamente.

Volendo avviare un esame razionale del problema del-l’ordine internazionale, occorrerà rispondere a questi tre principali quesiti:

a) Quali sono gli ordinamenti necessari per eliminare la presente anarchia internazionale?

b) Vi sono nella società forze sufficienti profondamente interessate al mantenimento di questi ordinamenti?

c) Come è possibile sganciarle dalle vecchie tradizioni rivelatesi inadeguate e perniciose?

2°) I mali dell’anarchia internazionale non provengono da altre cause estranee all’assenza di una legge internazionale, ma proprio da questa assenza. Per provvedere all’interesse comune, deve esistere un organismo apposito, capace di imporre la realizzazione di quell’interesse. Se questo organismo manca, se gli unici ordinamenti esistenti sono adeguati solo al raggiungimento di interessi particolari, allora, a meno che non si creda ad una provvidenza divina, evidentemente non è possibile evitare un corso delle cose in cui ciascuno provveda ai suoi particolari interessi, incurante del danno che infligge ad altri, in modo da dar luogo al sorgere di attriti e tensioni, che non possono essere infine risolte altro che mediante il ricorso alla forza.

L’eliminazione di questi mali non può perciò consistere in altro che nella formazione di istituzioni che elaborino ed impongano una legge internazionale, la quale impedisca il proseguimento di fini giovevoli solo ad una nazione, ma dannosi alle altre.

Questa soluzione appare lapalissiana, ogni volta che si tratti dell’ordine interno di una nazione; ma, non appena si tratta dell’ordine internazionale, agli uomini della nostra epoca nazionalista sembra strana, utopistica, violentatrice della più profonda ed immutabile natura umana, e ci si ingegna a formulare sofismi per esimersi dall’affrontarla. Allo stesso modo si comportarono un tempo rispetto alla formazione delle unità nazionali gli uomini dell’epoca feudale, ai
quali naturale ed ovvio appariva solo l’ordine nell’ambito dei castelli, delle contee, dei comuni.

Quest’ordine internazionale può essere creato mediante un impero che riduca gli altri stati a suoi vassalli. La legge allora è quella imposta dallo stato dominante; la forza necessaria per imporre la legge è quella dello stato titolare dell’impero. È questo il metodo più primitivo; più di frequente realizzato nella storia umana, ed oggi assistiamo ad un tentativo in grande stile e condotto con grande coerenza per realizzarlo ancora una volta. Se lo si respinge, non è perché fa uso della violenza per stabilirsi, ma perché per tutta un’epoca sarebbe basato sulla violenza, sulla disuguaglianza dei popoli, sul loro sfruttamento da parte del dominatore, sull’esaltazione mistica dell’impero, sull’ulteriore tendenza al dominio universale, sul permanente suo carattere militarista.

Ma quest’ordine può anche essere creato in modo più con-forme alle nostre esigenze fondamentali, mediante un ordinamento federale, il quale, pur lasciando a ogni singolo stato la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale nel modo che meglio si adatta al grado e alle peculiarità della sua civiltà, sottragga alla sovranità di tutti gli stati associati i mezzi con cui possono far valere i loro particolarismi egoistici, crei ed amministri un corpo di leggi internazionali al quale tutti egualmente debbono essere sottomessi (13).

I poteri di cui l’autorità federale deve disporre, sono quelli che garantiscono la fine definitiva delle politiche nazionali esclusiviste. Perciò la federazione deve avere l’esclusivo diritto di reclutare e di impiegare le forze armate (le quali dovrebbero avere anche il compito di tutela dell’ordine pubblico interno); di condurre la politica estera; di determinare i limiti amministrativi dei vari stati associati, in modo da soddisfare alle fondamentali esigenze nazionali e di sorvegliare a che non abbiano luogo soprusi sulle minoranze etniche; di provvedere alla totale abolizione delle barriere protezionistiche ed impedire che si ricostituiscano; di emettere una moneta unica federale; di assicurare la piena libertà di movimento di tutti i cittadini entro i confini della federazione; di amministrare tutte le colonie, cioè tutti i territori ancora incapaci di autonoma vita politica.

Per assolvere in modo efficace a questi compiti, la Fede-razione deve disporre di una magistratura federale, di un apparato amministrativo indipendente da quello dei singoli stati, del diritto di riscuotere direttamente dai cittadini le imposte necessarie per il suo funzionamento, di organi di legislazione e di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e non su rappresentanze degli stati federati.

Questa, in iscorcio, è l’organizzazione che si può chiamare l’organizzazione degli Stati Uniti d’Europa, e che costituisce la premessa indispensabile per l’eliminazione del militarismo imperialista.

Data la preminenza che l’Europa ha tuttora nel mondo, come centro di irradiazione di civiltà, e dato che è stata sempre, con le sue lotte intestine, l’epicentro di tutti i conflitti internazionali, la definitiva sua pacificazione, nel quadro delle istituzioni federali, significherebbe il più grande passo innanzi verso la pacificazione mondiale, che possa essere fatto nelle attuali circostanze.

3°) Evidentemente non basta che un ordinamento abbia meriti intrinseci. Perché venga realizzato, occorre vedere se intorno ad esso, a suo sostegno permanente, ci sia da attendersi che si schierino, nella civiltà moderna, imponenti forze vitali, non destinate a dissolversi rapidamente; tali che, per farsi valere, sentano di aver bisogno di quell’ordinamento e sieno perciò disposte ad agire per mantenerlo in vigore. Sarebbe inutile costruire un edificio che nessuno fosse poi interessato a conservare, anche se, per qualche favorevole con-giuntura, si trovassero forze sufficienti per costruirlo.

L’indagine rivolta all’individuazione di queste forze non ci darà senz’altro un’indicazione circa le forze che saranno disposte a combattere per realizzare la federazione, poiché molti individui e gruppi, quantunque obbiettivamente interessati alla sua realizzazione, potrebbero in realtà trovarsi ingranati in modo così stretto in altri orientamenti di sentimenti e di azioni, da proseguire lungo la strada imposta da questi, restando indifferenti, ignari e magari ostili a quel cammino che risponderebbe molto meglio ai loro interessi più profondi. Ciò costituirà oggetto di un ulteriore esame nel paragrafo 4°). Qui si vogliono vedere solo se la federazione, qualora riesca ad essere creata, sia soggetta a restare una faccenda interessante solo pochi dottrinari politici, e possa invece diventare veramente un bene pubblico, sentito come tale da larghe masse.

Se diamo uno sguardo nel campo della cultura europea, vediamo che larghissimi strati intellettuali hanno una formazione spirituale determinata dalle attuali predominanti educazioni. Nella misura in cui presso costoro prevalgono considerazioni di ordine intellettuale, essi hanno una tendenza verso posizioni nazionalistiche, come lo ha mostrato la forte presa esercitata nel campo della media cultura dalle ideologie sciovinistiche e razziste. Ma la cultura europea ha da molto tempo superato i gretti limiti nazionali, e la sua fioritura ha un carattere cosmopolitico. Lo strato più elevato della cultura europea è al di là di qualsiasi nazionalismo, ed è anzi condannato ad isterilirsi e perire se l’Europa procederà ancora sulla via dei nazionalismi, poiché questo corso gli toglierebbe l’alimento del libero scambio mondiale delle idee, e gli impedirebbe di esercitare la sua naturale funzione di indicare agli strati meno colti le vie dell’elevazione spirituale. La federazione europea sarebbe la garanzia del cosmopolitismo intellettuale, e della possibilità, per l’alta cultura, di esercitare la sua funzione di guida. In questo campo, la federazione potrebbe perciò contare sul sostegno dell’elemento più alto e più fecondo, e sulla resistenza di larghi strati dell’elemento più mediocre, destinato a svanire quando non ci fosse più una voluta politica nazionalistica interessata a formare artificiosamente atteggiamenti spirituali non più corrispondenti al grado effettivamente raggiunto dallo spirito.

Nel campo politico è da contare sull’ostilità, che non cesserebbe senz’altro con l’instaurazione dell’unità federale, di coloro la cui potenza è connessa immediatamente con l’esistenza degli stati nazionali, e che dalla riduzione dell’assoluta sovranità di questi vedrebbero abolito o sostanzialmente ridotto il loro potere; intendiamo parlare degli attuali governanti, degli strati superiori degli apparati statali civili, e ancor più di quelli militari. Costituiscono costoro l’ostacolo più formidabile, poiché sono gli uomini che hanno maggiore esperienza nel comando e incarnato la più forte tradizione nel mondo europeo. Anche sbalzati dal potere, a lungo andare si sforzerebbero di arrestare, se non addirittura distruggere, lo sviluppo del potere federale. Dietro a costoro troviamo gli strati parassitari o comunque privilegiati della società attuale. A rigore, essi potrebbero mantenere la loro situazione in un ordinamento federale, quanto in uno stato nazionale; ma poiché una federazione europea non è realizzabile che in occasione di una crisi rivoluzionaria e poggiando su forze rivoluzionarie, cioè fondando la sua causa con quella indirizzata a colpire direttamente tutte le posizioni privilegiate, questi ceti (costituiti dai grandi proprietari fondiari, dai dirigenti delle aziende che andrebbero socializzate, dalle alte gerarchie ecclesiastiche, ecc.) sarebbero indotti a militare senz’altro nelle file molto più congeniali delle reazioni nazionali.

Questi interessi ostili, molto forti all’inizio, quando fosse recente e perciò più cocente la perdita del potere, e più facilmente sfruttabile l’idiotismo nazionale ancor vigoroso, non troverebbero però alimento nella vita federale, e la loro curva sarebbe progressivamente declinante. I sentimenti nazionali, in quello che hanno di sano, non sarebbero necessariamente ostili. Man mano che divenisse chiaro come un normale sviluppo delle esigenze nazionali sarebbe garantito molto meglio da un imparziale ordine federale che dalla continua reciproca sopraffazione delle varie nazioni, i sentimenti nazionali andrebbero perdendo la loro virulenza e, finirebbero col convivere pacificamente entro l’ambito federale.

Interessate a sostenere l’unità europea sarebbero invece le correnti progressiste, non appena avessero scorto quale fondamentale garanzia essa costituisca per la loro efficace operosità. L’attuale sviluppo del militarismo e delle autarchie nazionali ha diretto verso improduttivi scopi bellici una enorme quantità di risorse; ha impedito la più fruttuosa esplicazione di tutte le energie, ed ha spinto per vie aberranti, soffocato e paralizzato completamente, i movimenti, specialmente quelli delle classi lavoratrici, che non potevano acquetarsi nell’accettazione della struttura sociale esistente, ma miravano a modificarla in modo che soddisfacesse alle loro giuste esigenze. La federazione europea riduce al minimo le spese militari, permettendo così l’impiego della quasi totalità delle risorse a scopi di elevazione del grado di civiltà. Con l’abolizione delle assurde barriere autarchiche permette un immenso sviluppo della produzione, creando così la necessaria premessa per una trasformazione sociale vitale, cioè fondata su un alto tenore di vita. Fa scomparire l’attuale necessità di permanenti regimi dispotici, lasciando libero giuoco ai movimenti sociali di emancipazione (14).

Uno spettacolo analogo scorgiamo se ci volgiamo al campo della vita economica. Anche qui troveremmo una forte difficoltà iniziale, destinata però a venir meno col tempo, da parte di coloro che traggono i guadagni dalle restrizioni economiche nazionali, da parte cioè dei dirigenti delle industrie che profittano delle autarchie, e di quegli strati di lavoratori agricoli e industriali i cui guadagni sono elevati grazie ai vari protezionismi (15). Valido sostegno all’unità fornirebbero invece quelle forze economiche paralizzate nelle loro iniziative dai restrizionismi nazionali, cioè quegli imprenditori che non contano, per far fruttare le loro imprese, su sussidi e su protezionismi, ma sull’esistenza di mercati grandi e ricchi (16), ed i lavoratori desiderosi di riottenere la piena libertà di movimento, per recarsi là dove il lavoro possa fruttare di più.

Concludendo questa rapida rassegna, possiamo dire che la federazione europea non è solo un ordinamento utile in astratto, ma che vi sono nella società odierna, ed ancor più si accrescerebbero per l’avvenire, forze ed interessi sufficientemente ampi e solidi per mantenerlo in vita e farlo funzionare in modo efficace.

4°) Resta ora da esaminare l’aspetto politico del problema. La federazione europea può essere la più razionale soluzione del caos attuale. Possono esserci, una volta che essa sia sorta, fortissimi gruppi sociali interessati a mantenerla. Tutto ciò evidentemente non basta. La soluzione più razionale non riuscirebbe ad affermarsi, se non ci fossero forze che l’imponessero. Interessi fortissimi possono rimanere inefficenti, se si trovano presi in un ingranaggio che li indirizza in tutt’altro senso. È possibile che si presenti un’occasione in cui si riesca a mobilitare forze sufficienti per imporre quella soluzione? Se a questa domanda si potrà dare una risposta affermativa, è chiaro che chiunque abbia a cuore le sorti della civiltà europea dovrà mettersi a lavorare seriamente lungo questa linea, quali che possano essere le sue prospettive ultime circa le sorti dell’umanità. Se invece la risposta sarà negativa, tutta la precedente indagine risulterà inutile, e non ci sarebbe che da rassegnarci ad una lotta vana, i cui frutti sarebbero invariabilmente intossicati, e trarsi da parte sdegnosamente se si vuole, ma comunque sterilmente.

Difatti, la difficoltà maggiore insita nella soluzione federale non è come farla funzionare efficacemente dopo sorta, ma nel come farla sorgere. L’idea della federazione si trova, salvo il caso della Svizzera, completamente al di fuori della tradizione europea. Da molti secoli gli europei si muovono lungo la linea della formazione di stati nazionali sovrani, e se talvolta è balenata la possibilità di superare questa linea, è stato sempre riattaccandosi all’ancor più antica tradizione romana; e questa o quella nazione più forte ha tentato di costruire un impero, che è semplicemente l’ultima logica conseguenza del principio nazionale. La forza maggiore di cui dispongono gli interessi antifederali è proprio questa tradizione nazionale. Abbiamo già visto nei due capitoli precedenti come le stesse forze progressive vi si sieno adattate, divenendone prigioniere, in modo che anche le tra-dizioni di più recente formazione, democratiche e socialiste, accettano i termini nazionali della lotta politica, si muovono entro di essi, e rinviano a un nebuloso avvenire che non impegna a nulla, il superamento delle contraddizioni scaturenti dal principio delle sovranità nazionali.

L’ostacolo è nella forza d’inerzia che spinge a proseguire secondo le direzioni già avviate. Per realizzare i loro interessi, gli uomini vengono elaborando leggi, discipline, abitudini, organizzazioni, tradizioni. Col modificarsi degli interessi effettivi non si modificano però senz’altro questi meccanismi sociali e psicologici, la cui caratteristica è anzi proprio quella della permanenza. Anche quando son divenuti dannosi, continuano ad essere conservati per la combinata influenza di coloro che, anche non essendolo o non essendolo più, non riescono a scorgere come si potrebbe procedere altrimenti. Gli interessi nuovi ed effettivi, non avendo sempre la forza e la chiarezza di idee necessarie per far piazza pulita delle tradizioni vecchie, fanno compromessi, vi si adattano, e finiscono spesso per crearsi discipline e tradizioni che danno una piega irrimediabilmente fatale ai loro sforzi. Il passato non alimenta solo il presente, ma spesso lo soffoca e lo avvelena.

A sostegno dei particolaristici interessi conservatori e della pigrizia spirituale, interviene allora l’ingegnosità intellettuale, che si dà a dimostrare il valore assoluto di quel che esiste solo perché esiste. Quel che è stata opera degli uomini, e dagli uomini può essere disfatto, viene convertito in un qualcosa che li trascina, volenti o nolenti. Si scoprono qualità innate di dominio nel popolo lanciato alla conquista. Oppure si afferma che non si può far violenza alle aspirazioni profonde dei popoli e delle classi, ma solo realizzare quel che è nella loro coscienza. Si individuano corsi necessari nella storia; la tradizione pesa come un incubo sull’uomo vivente e lo spinge a procedere su un cammino che magari termina in un abisso, ma che è il noto, sicuro cammino tracciato dagli antenati. «Weh dir, dass du ein Enkel bist»!

Questo argomentare, profondamente reazionario, e teorizzato al principio del secolo scorso, per motivi esplicitamente reazionari, lo udiamo snocciolare ad ogni piè sospinto, in coro, se pur con diversi intenti. È questa una prova, non come si illude di «senso storico», ma di ottusità storica, del grado in cui si è prigionieri, sia pure inconsciamente, delle forze reazionarie. Aver senso storico significa capire che «sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato».

Ragionando secondo lo pseudo-storicismo romantico, dovremmo dare senz’altro una risposta negativa alla nostra domanda: la federazione europea è irrealizzabile perché nessuno dei modi tradizionali che indirizzano le grandi forze sociali e contribuiscono in modo decisivo a influenzare le forme più appariscenti della loro coscienza, si muove nel senso della loro realizzazione. O, per adoperare un termine di moda, l’idea della federazione europea non è un mito come quello della nazione, della democrazia, del socialismo.

Nonostante tutto quello che si è detto finora a favore della federazione, l’idea federalista non avrebbe nessuna seria probabilità di tradursi in realtà, se avesse di fronte un modo stabilmente inquadrato nelle tradizionali regole ed organizzazioni. Contro la loro tremenda forza d’inerzia, qualunque abilità propagandistica, qualunque forza di ragionamenti, qualunque ardore di passione sarebbero condannati ad in-frangersi. Le stesse forze che dovrebbero sostenerla, resterebbero prigioniere dei vecchi schemi. La cultura europea continuerebbe a fiorire alla meno peggio, rimanendo però assolutamente incapace di frantumare la pseudo cultura nazionalistica. Le forze democratiche continuerebbero a tentare impossibili compromessi tra istituzioni libere e militarismo; le tendenze socialiste continuerebbero ad aspirare a socialismi convertentisi in collettivismi militaristici. Al centro di tutto ciò resterebbe imponente come una divinità lo stato nazionale sovrano. Gli Stati Uniti d’Europa continuerebbero ad essere un’utopia, come lo sono sempre stati sin ora.

Per la loro realizzazione occorrono circostanze particolarmente favorevoli, in cui le vecchie tradizioni, i vecchi schemi di condotta, in seguito a gravissimi eventi, abbiano transitoriamente perduto la presa che facevano sugli animi; circostanze che offrano alla tendenza federalista l’opportunità di imporre, come criterio di divisione fondamentale degli spiriti, l’atteggiamento pro e contro l’unità europea, di assumere la direzione delle forze favorevoli, indicando con chiarezza e compiendo con sicurezza gli atti necessari per creare gli ordinamenti intorno ai quali gli interessi indicati nelle pagine precedenti possano restare saldamente uniti. E solo allora, avviando nuove discipline e facendo sorgere nuovi problemi, si verrebbe a creare la nuovo tradizione e il nuovo «mito» popolare dell’unità europea. Volere che esso esista preventivamente, significherebbe voler mettere il carro innanzi ai buoi.

Ora questa circostanza straordinaria è molto probabile che si presenti presto. Tutti i più recenti avvenimenti giocano in questo senso.

Anche alla fine dell’altra guerra, si sentiva che occorreva fare qualcosa di serio per evitare il ripetersi degli errori da cui si era usciti. Durante il suo corso, si era manifestata ai vari stati la necessità di condurre azioni comuni, che avrebbero potuto essere embrioni di strutture politiche superstatali, quali il comando unico, fondi in comune per la stabilità dei cambi, distribuzione delle materie prime disponibili per rendere massima l’efficienza produttiva generale, ecc. In ambedue i campi, gli stati più energici, cioè la Germania e l’Inghilterra, avevano costituito la spina dorsale delle intere coalizioni di stati combattenti. E tuttavia ogni paese spiritualmente aveva combattuto per sé, per la propria difesa, pel soddisfacimento delle proprie ambizioni. In ogni paese, gli sguardi dell’uomo comune erano permanentemente rivolti a quel che faceva o non faceva il proprio stato. La stessa caratteristica di guerra di posizione assunta dalla lotta fra i popoli, faceva concentrare tutta l’attenzione sulle proprie frontiere. Gli anni della guerra avevano sottoposto ciascuno stato ad una rude stretta, ma lo avevano per così dire ancor più isolato da tutti gli altri e dalla visione dell’interesse comune dei vari popoli. Ciascuno si avviò verso la crisi post-bellica chiuso nell’orizzonte nazionale. Nell’interno di ogni stato rimasero predominanti le divisioni operate dal problema dell’organizzazione politica (democrazia e autoritarismo) e quelle operate dai problemi della proprietà (socialismo e capitalismo). Tutte queste forze lottarono aspramente per creare uno stato autoritario o democratico, capitalista o socialista, ma pur sempre per rendere più solido lo stato sovrano — l’idolo.

Il movimento proletario che allora occupava il primo piano, e che avrebbe potuto influire in modo decisivo sulla politica internazionale, si trovò agitato ed esaltato da sentimenti di solidarietà internazionale soprattutto verso la rivoluzione russa. L’invito russo a costituire solidi partiti rivoluzionari, capaci di realizzare una rivoluzione mondiale, non fu tuttavia accolto dall’enorme maggioranza degli operai, che mostrarono coi fatti di simpatizzare colla rivoluzione russa, ma di voler proseguire la loro tradizionale politica in termini nazionali. Il mito russo ebbe così, nel campo della politica internazionale, quasi l’unico effetto di far sorgere speranze palingenetiche, lasciando completamente nell’ombra, in tutto il periodo critico del dopoguerra la questione dell’organizzazione della pace nel mondo, e in particolare sul continente europeo. Quantunque questa fosse effettivamente la cosa decisiva, agli effetti dei futuri sviluppi dell’umanità, rimase affidata ai vecchi statisti i quali, si potrebbe quasi dire per deformazione professionale, non furono capaci di vedere altro che i problemi della potenza nazionale, e di premere per ottenere, a secondo della loro abilità e delle forze che avevano dietro, nei limiti della pace, succeduti a quelli della guerra, questo e quel vantaggio. Solo pochissimi intesero il pericolo della ricostituzione della sovranità assoluta degli stati europei (17). Così stando le cose, è facile capire come il bisogno di dar vita ad un ordine internazionale abbia prodotto solo l’aborto della S. d. N. (18).

L’attuale guerra ha avuto un andamento totalmente diverso. Esclusa l’Inghilterra, mezza Russia e alcuni secondari stati occidentali, tutto il continente si trova, in massima parte direttamente e in una parte minore indirettamente, sotto il dominio della Germania. Le antiche strutture statali sono fracassate o si reggono solo in modo apparente. Questo stato di cose che, in caso di vittoria tedesca, costituirebbe il punto di partenza dell’impero tedesco, costituirebbe nel caso contrario, la situazione più favorevole per l’affermarsi dell’idea federalista. L’attuale giogo tedesco spinge infatti i vari popoli a liberarsi, ma pone questa esigenza non come esigenza particolare di ciascun popolo, ma come comune interesse di tutti i popoli europei. Già fin d’ora i sentimenti popolari vanno perdendo la loro grettezza nazionale: in misura crescente i popoli seguono col cuore non le sorti della propria bandiera, ma le sorti delle forze che combattono per loro, anche se ufficialmente sono forze di un paese nemico. Tutti i paesi cominciano a rendersi conto che il problema per cui si combatte è un problema superiore a quello della potenza della propria nazione. Cadendo spezzata la potenza militare del nazismo, tutti i paesi europei si troverebbero con-temporaneamente di fronte al problema di dare un ordine al continente. La gravità delle sofferenze patite e del pericolo corso di generale asservimento, farebbe sentire in modo urgente questa necessità. Il problema dell’ordine internazionale sovrasterebbe su quello dell’ordine nazionale, in una misura quale alla fine dell’altra guerra non fu certamente sentito. Non ci si troverebbe dinanzi, solidi e imponenti, gli stati nazionali sovrani ad affascinare l’attenzione di tutti, dei vinti, dei vincitori, dei liberati, la tragica impotenza di quegli idoli. Le reazionarie tendenze nazionalistiche, camuffandosi a seconda delle passioni del momento, potranno cercare di aggiogare di nuovo al loro carro le passioni nazionali offese dalla recente oppressione; ma non potranno monopolizzarle senz’altro a piacer loro. Un movimento politico federalista potrebbe far fallire il loro gioco, rivolgendosi anch’esso a quelle passioni e cercando di guidarle verso una soluzione che non ignori i sentimenti nazionali, ma dia anzi loro il modo di manifestarsi liberamente. Data la freschezza del ricordo della guerra, il tono del momento non sarà quello di un aggressivo nazionalismo, ma sarà il desiderio di non veder più oppressa la propria nazione, e di trovare un modo di vivere in pace con i vicini. La soluzione federale verrebbe incontro a questa aspirazione molto meglio della semplice restaurazione delle sovranità nazionali. La lotta sarebbe certamente dura ed occorrerebbe energia ed abilità per rag-giungere lo scopo. Se si trattasse di creare uno stato unitario, i sentimenti nazionali sarebbero in blocco contrari e sarebbe difficile mobilitare forze sufficienti per venirne a capo. Ma per una soluzione federale occorrerebbe non già spezzare le passioni nazionali, bensì appoggiare largamente su di esse impedendo che si riformasse l’anello che le tiene ora legate alle forze nazionalistiche. Si tenga conto infine che, dato lo sviluppo degli avvenimenti, è prevedibile che la crisi definitiva non verrà isolatamente prima in questo e poi in quel paese, ma contemporaneamente in tutta l’Europa, al momento del collasso della potenza militare che ora la tiene quasi tutta sottomessa. Ciò faciliterà enormemente il coordinamento della propaganda e dell’azione in tutti i paesi.

L’idea federalista, essendo così posta all’ordine del giorno come quella che mirerebbe a risolvere il più urgente di tutti i problemi del dopo guerra, e toccando direttamente lo stato nazionale, cioè l’organo verso cui sono orientati tutti i movimenti tradizionali che mobilitano le masse, non potrebbe non esercitare una profonda azione di rinnovamento e di chiarificazione sulle aspirazioni democratiche e su quelle socialiste. Anche queste tendenze non si presenteranno, come si presentarono alla fine dell’altra guerra, con quadri politici formati, con masse organizzate, abituate a seguire le loro direttive, in una parola con la forza di una tradizione consolidata.

Mentre il desiderio di libertà sarà grandissimo, incertissime saranno le idee sul come realizzarla. Nelle menti di tutti sarà vivissimo il ricordo del marcio che si cela nelle democrazie nazionali, condannate ad essere un disperato connubio fra democrazia e militarismo. Vediamo già ora come questo ricordo renda confusi ed incerti tutti i paesi dei democratici. Il movimento federalista avrebbe da raccogliere le forze vive anche in questo campo. Dovrebbe penetrare in mezzo alle imponenti ma disorganizzate masse, indicando l’unica via possibile per realizzare in modo permanente quel-l’aspirazione, ed impedendo così il loro ricadere in balìa delle tradizionali vie democratiche nazionali. Anche qui non si tratta di ignorare e contrastare l’esigenza della libertà, agitantesi nei cuori dei popoli, stanchi dei dispotismi totalitari; non si tratta di andare in cerca di altre forze da opporre a questa, ma di sapere indirizzare le aspirazioni esistenti.

E se, infine, si prendono in considerazione le tendenze socialiste delle classi lavoratrici, si scorge che son ben lungi dall’essere soddisfatte, e che nella crisi del dopo guerra si faranno sentire imperiosamente. Ma non si tratta più di passioni già inquadrate e dirette verso precisi scopi. Al contrario. I vecchi partiti proletari sono stati privati della tradizionale presa organizzativa sulle masse, e l’esperienza nel periodo che va dal 1918 ad oggi ha confuso tutte le loro idee, e li ha resi incertissimi circa il futuro cammino da percorrere. Basti confrontare, per prendere solo il caso del più energico di essi, la sicura baldanza con cui i socialisti di tendenza rivoluzionaria (cioè quelli che sarebbero ben presto diventati comunisti) dichiaravano durante l’altra guerra che presto sarebbe venuta l’ora dell’instaurazione del socialismo, e la cautela con cui si esprimono oggi i comunisti, i quali usano spesso parole genericamente democratiche. Ciò è dovuto in parte ad una abilità tattica, e, non avendo essi modificato nulla delle loro concezioni fondamentali, non si capirebbe proprio per qual motivo non dovrebbero percorrere la stessa via di ultracollettivizzazione percorsa dalla Russia, qualora se ne offrisse loro l’opportunità. Ma che abbiano sentito il bisogno di lasciare in ombra le loro vedute è un notevole sintomo di quanto essi stessi sentano non più corrispondente alle aspirazioni socialiste proletarie il loro collettivismo. Il collettivismo nazionale (e praticamente, come si è visto, non è oggi possibile altro collettivismo che quello su scala nazionale) non ha più il fascino delle cose ignote. Anche le aspirazioni socialiste del proletariato non si troveranno alla fine della guerra già captate nei vecchi schemi, ed il movimento federalista potrà efficacemente lavorare per indirizzarle nel senso favorevole ad una soluzione europea, propugnando riforme radicali e mostrando come possano veramente fruttificare solo nell’ambiente liberato dall’incubo imperialista.

Ogni paese avrà i suoi particolari problemi da risolvere. Risolverli tutti in modo omogeneo ed unitario, coordinare tutti i disparatissimi movimenti, sarebbe un’impresa disperata. Ma i federalisti non dovrebbero proporsi ciò, poiché non intendono creare uno stato unitario europeo. L’idea federalista, quantunque sia profondamente innovatrice, è fornita di una elasticità tale da permetterle di diventare rapidamente, in una situazione rivoluzionaria, il criterio di distinzione delle forze politiche e delle passioni esistenti, non contrapponendosi ad esse, ma impregnandole di sé e rendendole così immuni dalle fatali deficienze dei vecchi orientamenti. Basterà che a queste forze e passioni nazionali, democratiche, socialiste, profondamente disorientate, sappia con un’opera intelligente mostrare che, per l’adeguata risoluzione delle loro esigenze, condizione imprescindibile è la formazione dei pochi, semplici, facilmente comprensibili, solidi ed irrevocabili istituti federali. Non occorrerà preoccuparsi troppo del coordinamento dei singoli problemi nazionali. Con la creazione della federazione sarebbe infatti creato l’ordinamento interno al quale le forze progressive verrebbero naturalmente coordinandosi e dal quale riceverebbero la loro ulteriore impronta.

5°) Da quanto si è detto appare chiaro che la difficoltà maggiore da superare per riuscire, non è l’esistenza di vecchie tradizioni; poiché queste si presenteranno rotte e disperse, o per lo meno incerte e disorganizzate. La difficoltà maggiore è nella formazione del movimento federalista. Senza di esso la straordinaria congiuntura delle condizioni favorevoli si dissolverebbe inutilizzata. Quel che si richiede agli attivi federalisti è molto più di quel che si richiede alle masse mobilitabili a favore dell’unità europea. Occorre infatti che intendano, sì, il valore delle esigenze di indipendenza nazionale, di libertà politica, di eguaglianza sociale, ma occorre anche che si immunizzino mediante una seria autocritica, di tutti i feticci, nazionali, democratici, socialisti, cioè dei tradizionali insufficienti modi con cui si è finora cercato di soddisfare quelle esigenze. Se avranno questa immunità saranno capaci di far presa sulle masse e guidarle verso obbiettivi a cui esse sono già state inconsciamente predisposte da tutti gli eventi storici.

Se saranno invece prigionieri dei vari feticci e simboli correnti, saranno assolutamente incapaci di assolvere a quella funzione di direzione, e non avranno la spregiudicatezza e la fermezza necessarie per tenere unite le molteplici forze e per raffrenarle, quando nella loro unilateralità minacciassero di far mancare lo scopo; non saranno capaci di dare ordine al caos delle masse, ma ne saranno inghiottiti.

(1) L’autore scriveva nel 1941. Oggi vale la pena di completare l’elenco: francesi, belgi, olandesi, danesi, norvegesi, jugoslavi,
greci, albanesi e italiani.

(2) I motivi patriottici, cioè proprio quelli che più facilmente si convertono in boria nazionale e in propensione ad opprimere altri popoli, sono nell’epoca moderna i più fortemente sentiti. Ci basti ricordare uno dei casi più clamorosi. Il 14 gennaio 1935 gli abitanti della Saar furono chiamati a decidere se il loro paese dovesse per altri dieci anni rimanere sotto l’amministrazione della S. d. N. o tornare alla Germania, o passare alla Francia. Gli abitanti della Saar erano nella quasi totalità operai organizzati, amanti delle loro libertà, e in gran parte cattolici. Da una vivacissima campagna antinazista svolta fra loro da numerosi fuorusciti tedeschi erano stati precisamente informati di che cosa significasse l’immediato ritorno alla Germania, sotto il governo di Hitler. Un corpo
di truppe anglo-italo-olandese-svedesi assicurò l’ordine, dando le migliori garanzie del segreto di voto. Il plebiscito dette 476.089 voti per la Germania, 46.613 per lo statu quo e 2.083 per la Francia. Il sentimento nazionalistico fu così travolgente, che gli stessi operai non presero in seria considerazione neppure la decisione dilatatoria, che non avrebbe compromesso nulla, e si pronunciarono con una spettacolare maggioranza per l’immediata unità col Reich, cioè per la distruzione delle loro organizzazioni sindacali, per la persecuzione della loro religione, per la perdita delle loro libertà.

(3) La traduzione odierna di questo manicheismo democratico è l’asserzione che le guerre sieno causate, se non dall’avidità del
principe, dall’avidità dell’oligarchia capitalistica. La risposta qui data a tale argomento vale perciò anche per questa tesi, di cui si
parlerà più particolareggiatamente nel capitolo seguente.

(4) Gli esempi si possono moltiplicare, traendoli tanto dalla storia più antica quanto da quella più recente. Tra i più esosi ed
invadenti casi di sfruttamento, sono da ricordare la politica della democrazia ateniese verso le città alleate; quella della democrazia fiorentina rispetto al contado e a Pisa; quella delle democrazie dei Cantoni di Berna, di Uri, di Schwyz e Unterwalden, rispetto ai territori di Vaud e del Canton Ticino.

(5) Ciò non ha impedito naturalmente all’Inghilterra di fare sopraffazioni di ogni genere, le quali non hanno come conditio sine
qua non
la civilizzazione dello stato, ma la semplice volontà di far prevalere gli interessi particolari. Ha però ostacolato il sorgere del
sentimento imperialistico, il quale vede nello stato un ente superiore fornito di diritti estendentisi sin dove si estende la sua forza. L’Inghilterra ha sì creato il più grande impero del mondo, ma è contemporaneamente, per strano che possa apparire, uno dei paesi
meno forniti di mistico potere imperialista.

(6) Per la storia di questa esperienza, quanto mai istruttiva vedi Arthur Rosenberg, Geschichte der Deutschen Republik, ed.
“Graphia”, Karlsbad, 1935. La difficoltà che ha una restaurazione democratica di venire a capo delle tradizioni dello stato moderno,
dipende dalla specifica necessità in cui si trova di salvare istituzioni animate da uno spirito niente affatto repubblicano (cioè tale
da concepire l’attività dello stato come un servizio pubblico destinato a soddisfare i bisogni cittadini), ma compenetrato invece di
spirito misticamente imperiale (cioè tale da compenetrare l’attività dello stato come un fine a cui i sudditi debbano prestare i loro
servizi).

La difficoltà ha però un aspetto molto più generale. La radice più profonda del diritto dello stato ad esigere l’incondizionato servizio dei cittadini per soddisfare i suoi fini, si trova nella coscienza stessa dell’uomo moderno, abituato a quelle prestazioni, e che riconosce allo stato, come cosa del tutto naturale, il diritto di chiamarlo al servizio militare, al combattimento, alla morte. Ci sono
state intere epoche in cui questo potere di obbedienza non esisteva; ma è certo che lo stato moderno europeo, qualunque sia la sua
struttura sociale e politica, finché deve contare su una possibilità di guerra, non può ovviare un’educazione che lasci cadere in desuetudine quell’atteggiamento, ma deve alimentarlo permanentemente nel cuore di tutti i cittadini. Perciò, anche dopo una radicale rivoluzione, esauriti i sogni palingenetici del primo momento, se manca una nuova organizzazione internazionale, che renda impossibile per lo stato una linea di condotta imperialistica riemergerà, con varianti non sostanziali, nell’animo dei cittadini, l’abitudinaria coscienza di sottomissione alle esigenze imperiali dello stato. Il rapporto tra stato e suddito torna ad essere quello di prima. Ciò può contribuire a spiegare come la monarchia assoluta francese sia risorta così rapidamente nella potenziata fama napoleonica, e l’autocrazia tradizionale russa si sia evoluta nell’accentramento staliniano. Anche dopo la caduta dei rispettivi anciens régimes, il francese e il russo continuavano a sentirsi impegnati a dare la loro vita al loro stato, incondizionatamente, e le circostanze obbiettive non permettevano che si evolvesse una diversa coscienza.

(7) Una buona critica di questa teoria si trova in The economic causes of War di Lionel Robbins (Macmillan, New York,
1940), di cui è specialmente consigliabile la lettura, come introduzione allo studio dei problemi dell’organizzazione federale dell’Europa.

(8) Le parole tra virgolette sono dello stesso Lenin. Il brano è tolto dal manifesto del secondo congresso dell’Internazionale comunista del 1920 che, come è noto, rappresenta il più maturo pensiero di Lenin sulla rivoluzione socialista mondiale. Le idee sul
capitalismo di stato del tempo di guerra come mezzo per realizzare il socialismo, sono state scritte durante la guerra.

(9) La cosa sembra loro così ovvia, che nel manifesto sopra citato, mentre la dittatura del proletariato è chiaramente concepita
come la presa di possesso da parte del proletariato degli stati esistenti, manca ogni esplicito accenno alla necessità di procedere alla formazione di istituzioni politiche internazionali; solo di passaggio, parlando non della sorte dei grandi popoli, ma di quella dei piccoli, si dice che: “soltanto la rivoluzione proletaria può assicurare ai piccoli popoli una libera esistenza, liberando essa le forze produttive di tutti i paesi dalle ristrettezze degli stati nazionali, riunendo essa tutti i popoli in una compatta cooperazione economica, basata su un piano economico generale...”.

L’impossibilità di dare un piano economico internazionale senza avere un potere politico internazionale, sfugge ai comunisti, di solito così sensibili nell’apprezzare l’importanza centrale del potere politico in tutte le faccende di rivoluzioni proletarie.

(10) L’impossibilità di far convivere pacificamente più stati socialisti sovrani, è identica all’impossibilità di far convivere e cooperare più comuni socialisti sovrani. I comunisti hanno inteso molto bene questa seconda difficoltà, hanno respinto il federalismo comunistico-anarchico e lo hanno combattuto quando — in Spagna — ha minacciato di dissolvere tutto in una polvere di piccole comunità rissose e gelose. Nel caso della convivenza fra stati, essi assumono invece lo stesso serafico ottimismo degli anarchici, e son sicuri che tutto filerà alla perfezione da sé, senza bisogno della costrizione della legge internazionale, non appena la bestia capitalista sia distrutta.

Sull’argomento trattato in questo paragrafo, dei rapporti fra stati socialisti indipendenti, l’opera fondamentale è: Economic planning and International order di L. Robbins (London, 1937), in cui viene ampiamente svolta, dal punto di vista economico, la tesi della necessità della federazione europea.

(11) Un tentativo di vedere le cose da questo punto di vista in realtà c’è stato, e l’incomprensione che ha incontrato nelle file comuniste è significativa. Trotzki, già durante la guerra mondiale, si era opposto a quello che egli chiamava “nazionalismo a rovescio” di Lenin e aveva proposto di mettere all’ordine del giorno gli Stati Uniti socialisti d’Europa. Nel 1930 scriveva: “L’ora della scomparsa dei programmi nazionali è suonata definitivamente il 4 agosto 1914. Il partito rivoluzionario del proletariato non può fondarsi che su un programma internazionale corrispondente al carattere dell’epoca attuale”. Nel 1931-32 ha proposto per la Germania, che si trovava allora sull’orlo della catastrofe, un piano rivoluzionario secondo il quale la questione centrale non doveva essere, come sostenevano invece i comunisti, l’instaurazione di una Germania sovietica, accanto alla Russia sovietica, ma l’unione dell’economia tedesca e di quella russa. Egli si rendeva però perfettamente conto che l’ostacolo maggiore a questa direttiva era nel socialismo nazionale russo, che non poteva ammettere di essere bisognoso di un’integrazione dal di fuori. In questa incapacità del socialismo internazionale russo di venire incontro alla crisi dell’economia tedesca, appaiono in modo tipico le estreme difficoltà di ogni genere (si pensi solo a quella sorgente dalla necessità di rivedere i piani fatti e di rimettere tutto in ballo)
che si presentano se si vuol giungere a un socialismo internazionale attraverso i socialismi nazionali. Le due vie tendono irremissibilmente a divergere.

(12) Comunisti e socialisti, proclamando di essere gli unici depositari dell’idea collettivista, si rifiutano di prendere sul serio il
collettivismo nazionalsocialista, e continuano a parlare della Germania come di un paese capitalista, pel fatto che a capo delle varie
aziende sono rimasti gli antichi dirigenti capitalisti. Ma ciò significa solo che i nazisti hanno avuto convenienza ad utilizzare le capacità tecniche di quelle persone, e sono stati così bravi da riuscirci, lasciando in vita certe formalità giuridiche. Qualsiasi dirigente industriale può però essere deposto ad un cenno dei governanti. Lo stato stabilisce quel che si deve produrre, determina i costi, fissa i prezzi di vendita e gli emolumenti degli imprenditori (salvo, naturalmente, le frodi di costoro, le quali possono però avvenire anche nel tipo del collettivismo comunista). Li trasforma insomma, di fatto, in funzionari.

(13) Data la frequenza con cui la demagogia fa uso della assurda formula del diritto di autodecisione dei popoli, giungendo fino alla separazione della compagine statale di cui fan parte, sarà bene sottolineare che l’ammissione di un tale principio è inconciliabile
con l’idea stessa di federazione. La trasformerebbe infatti in una rinnovata S. d. N., in cui ciascuno stato avrebbe pur sempre, dopo
un adeguato eccitamento delle passioni nazionali del suo popolo, il diritto di rifiutarsi alla legge comune, facendo saltare in aria tutto l’edificio. Il passaggio di sovranità allo stato federale dovrebbe essere necessariamente irrevocabile.

(14) Un altro effetto benefico avrebbe la federazione sui movimenti di rinnovamento sociale; effetto che non può essere che accennato in nota. I movimenti socialistici sono giunti a un punto morto, non solamente a causa degli sviluppi dell’imperialismo militarista, ma anche perché prigionieri della loro formula di collettivizzazione dei mezzi materiali di produzione; collettivizzazione di-mostrata nefasta tanto dall’analisi scientifica quanto dall’esperienza pratica. Perché l’esigenza giusta del socialismo — l’emancipazione delle classi lavoratrici — fruttifichi, è necessaria una revisione delle idee tradizionali, in modo che ci si renda conto dei limiti di convenienza delle misure di collettivizzazione e del fatto che occorre correggere gli effetti malefici della concorrenza, ma non distruggerla, poiché insieme ad essa si eliminerebbero il mezzo per determinare in modo più razionale l’utilizzazione delle riserve naturali ed umane. (Confronta Hayek, Collectivistic economic planning, Londra, 1935). Lo sviluppo di un’idea socialista che valuti giustamente la funzione della libera concorrenza si urta di fronte a pesantissime tradizioni, finché il corso generale vada, a causa delle esigenze militaristiche, verso una crescente collettivizzazione. In tal caso, per i socialisti di tutte le tendenze, la via di minor resistenza psicologica è quella consistente nell’accettare quel corso, esigendo che sia impiegato a favore delle classi lavoratrici. La federazione, creando invece un’atmosfera di libero scambio, viene incontro in modo naturale al processo di elaborazione di più vitali e feconde idee socialiste.

(15) Quantunque non sia di moda collocare nelle eventuali file reazionarie anche gruppi di lavoratori, ciò va fatto. Non è verosimile che nei paesi europei, salvo alcuni gruppi eccezionali più profondamente impregnati di egoismo di categoria, ci sieno molti operai che vi militerebbero effettivamente. Ma ciò, non perché non ve ne sieno parecchi che partecipino ai profitti del restrizionismo nazionale, bensì perché una federazione europea, pur costringendo molti di loro a cambiare le loro occupazioni, offrirebbe nel complesso vantaggi talmente superiori, da controbilanciare ad usura i danni della cessazione del protezionismo. Si pensi però, per fare un caso tipico, quantunque non europeo, alla immensa resistenza reazionaria che farebbero le masse operaie americane, ad una politica comportante l’abolizione delle restrizioni immigratorie. È inoltre da tener conto che i lavoratori europei sono, a differenza di quelli americani, troppo impregnati di ideologie politiche progressiste, per lasciar prevalere solo gli interessi che li porterebbero a militare accanto agli altri ceti che si trovano nel campo reazionario. Un caso tipico di prevalenza degli interessi ideali su quelli materiali nelle classi lavoratrici può essere dato dal favore dimostrato per la causa di Lincoln dai tessili di Manchester che, seguendo i loro interessi economici, avrebbero dovuto partecipare per gli schiavisti del sud.

(16) Il considerare il capitalismo come un blocco fornito di interessi abbastanza omogenei, e limitare questi interessi al legame esistente tra capitale monopolistico e stati imperialistici, impedisce alle tendenze socialiste di considerare con obbiettività la funzione che spetterebbe a forze capitalistiche in un ordinamento federale, e fa loro erroneamente sostenere che questo ordinamento presuppone l’abolizione del capitalismo. In realtà, solo una parte dei capitalisti è legata alla sorte degli stati nazionali. Notevolmente importanti sono invece gli interessi capitalistici esistenti contrari alle autarchie nazionali (banche, commercio di esportazione, produttori di materie prime che trovano sbocco sufficiente solo in un mercato mondiale, produttori che impiegano materie prime estere, ecc.). Questa massa di interessi aumenterebbe rapidamente nel senso del capitalismo preso come complesso, non appena l’ordinamento federale fosse istituito. Ad esso spetterebbe in sostanza il compito di trasformare gli anemici mercati autarchici in un unico ricco mercato continentale. Se non ci fosse il sostegno di questo capitalismo liberoscambista con la sua forza unificatrice, la federazione si troverebbe a dover risolvere per via burocratica il sovrumano problema di unificare le membra disiecta delle singole economie nazionali.

(17) In Italia specialmente notevoli furono le Lettere politiche di Junius pubblicate sul “Corriere della Sera” del 1918-19 e ristampate nel 1920 (Laterza, Bari). Meritano ancor oggi di essere meditate la VII e la IX.

(18) Le persone di buon senso prevedevano, già prima che fosse istituita, la assoluta inefficacia di una S. d. N., rispettosa della completa sovranità dei singoli stati. Oltre alle lettere di Junius citate, vedi, ad esempio, il mordente giudizio di Winston Churchill che faceva parte della delegazione britannica a Versailles (cfr. nota a pag. 232 di Guerra diplomatica di Aldovrandi Marescotti, Milano, 1939).